La 74a assemblea Generale della CEI del 24-27 maggio 2021 ha avuto come tema: Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita. Per avviare un cammino sinodale.
Avremo modo di ritornarci anche perché dovrebbe caratterizzare sempre più il nostro stile di essere Chiesa del futuro. Per questo momento di preghiera e di adorazione vorrei fare riferimento alla 69a assemblea generale della CEI nel 2016, quando papa Francesco il 16 maggio, all’apertura dei lavori, ha offerto una sua riflessione su uno dei punti all’ordine del giorno della stessa assemblea che aveva come oggetto: il rinnovamento del clero a partire dalla formazione permanente. Proviamo a vivere questo momento di preghiera, in occasione della giornata di santificazione sacerdotale che celebriamo nella solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, lasciandoci raggiungere e sollecitare tutti, me per primo, dalla parola del papa non per pura evasione, rassicurante astrazione o solo per assolvere ad un obbligo, ma per quella concreta, inquietante e sempre più avvincente proposta che per tutti e per ciascuno è l’Evangelo di nostro Signore Gesù Cristo. Il prete secondo il Vangelo, che non voglia inseguire idee artificiosamente inventate o modellate secondo criteri e paradigmi mondani, e che non voglia rischiare di correre e faticare invano, è un prete che appartiene al Signore, alla Chiesa e al Regno.
a) Un prete appartiene al Signore Dio
Papa Francesco, in quella meditazione, ispirandosi all’esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii Nunziandi (1975), documento a cui per la verità in modo abbastanza evidente fa riferimento Evangelii Gaudium (2013), ci invita alla preghiera e all’impegno perché noi preti possiamo sempre più essere ministri del Vangelo, con la consapevolezza che privati di tale fondamentale e imprescindibile orizzonte di riferimento – il Vangelo – non sapremmo dove andare. Dove andiamo senza il Vangelo? Ma dove andiamo senza di te Signore Gesù? Un prete attratto e affascinato dal Vangelo finisce per irradiare non se stesso, ma la Persona e il suo messaggio da cui si è lasciato afferrare e basta; egli con la sua vita e nel suo ministero mostra tutto il suo fervore nella misura in cui appartiene al Signore, anche in un contesto culturale difficile e complesso come il nostro, così profondamente mutato negli ultimi decenni, che continua a conoscere rapidi e incessanti cambiamenti. Siamo d’entro un cambiamento d’epoca (la pandemia è una delle prove): “Anche in Italia tante tradizioni, abitudini e visioni della vita sono state intaccate da un profondo cambiamento d’epoca. Noi, che spesso ci ritroviamo a deplorare questo tempo con tono amaro e accusatorio, dobbiamo avvertirne la durezza: nel nostro ministero quante persone incontriamo che sono nell’affanno per la mancanza di riferimenti a cui guardare! Quante relazioni ferite! In un mondo in cui ciascuno si pensa come la misura di tutto, non c’è più posto per il fratello”. In tale contesto il presbitero è chiamato a mostrare la sua identità e la sua differenza; egli brilla per l’eloquenza di una vita intessuta di testimonianza evangelica, per una esistenza rivestita di semplicità e sobrietà, senza bisogno di tanti proclami, in quanto non si conforma ad una mentalità sempre più in cerca di appariscenza, di visibilità, di rumore e di clamore secondo la logica di questo mondo. La sua regola è il Vangelo: è un cristiano! Pensiamo, per un momento, alla parabola che Gesù ci consegna nei Vangeli del lievito nella massa che per far lievitare tutta la pasta deve sparire come lievito (letteralmente enekrupsen, una realtà che si nasconde, cioè non è più visibile) (cfr. Mt 13,33). L’esistenza di un presbitero, come quella di un cristiano, mostra tutta la bellezza della differenza cristiana quanto incarna e testimonia il Vangelo. “Come Mosè, il prete è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e di potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un devoto, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco. È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano: consapevole di essere lui stesso un paralitico guarito, è distante dalla freddezza rigorista, come pure dalla superficialità di chi vuole mostrarsi accondiscendente a buon mercato”. La sorgente è questo roveto che brucia e non si consuma; è un grande amore; è la carità pastorale di Cristo che ama sempre di e con un amore senza limiti. Il prete come un vero discepolo si accosta sempre a tale inesauribile sorgente con timore e tremore perché consapevole che ha a che fare con i sentimenti che sono di Cristo Gesù. Il prete cerca sempre di sentire con il sentire stesso di Cristo: sente con il suo sentire; sente con il suo Cuore. Impara dalla sua mitezza, dalla sua umiltà, dal suo amore… Il prete solo lasciandosi raggiungere e radicandosi in questo amore senza limiti riesce a farsi carico, a farsi prossimo di tutti e soprattutto di chi non ha niente di niente e che pertanto non conta nulla agli occhi del mondo. Il prete – dice ancora papa Francesco – “avendo accettato di non disporre di sé, non ha un’agenda da difendere, ma consegna ogni mattina al Signore il suo tempo per lasciarsi incontrare dalla gente e farsi incontro”. In questo stile pastorale non c’è logica impiegatizia, manageriale, che risponda a calcoli interessati e a freddi criteri di efficienza. Il prete “sa che l’Amore è tutto”; egli appartiene al Signore Dio.
b) … appartiene alla Chiesa, al popolo di Dio
Il prete è per il popolo perché appartiene al popolo. C’è una comune appartenenza con il popolo fedele e non solo nella natura: “È scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza…” Eb 5,1-2. Ma c’è pure una comune appartenenza con il popolo nella grazia: il battesimo. Il prete non dimentica il popolo e non si allontana dal popolo fedele perché “è il grembo da cui è tratto, è la famiglia in cui è coinvolto, è la casa a cui è inviato” dice papa Francesco. “Questa comune appartenenza, che sgorga dal battesimo, è il respiro che libera da un’autoreferenzialità che isola e imprigiona”. Il prete non dimentica inoltre che è strutturalmente un missionario. Il Papa richiama qui Dom Hélder Camara il quale dice: “Quando il tuo battello comincerà a mettere radici nell’immobilità del molo prendi il largo!” Il prete, dunque, ogni mattina senza sosta e senza perdersi d’animo prende il largo: “Duc in altum”. Mi piace pensare, in questo momento, alla piccola speranza, di cui parla Ch. Peguy, “quella che si leva tutte le mattine”. Il prete non si lascia prendere da sonnolenza, da pigrizia o indolenza, perché non ha altro desiderio che far conoscere quello che gli è stato dato di conoscere e far amare Colui che gli è stato concesso di amare con tutto se stesso: Gesù Cristo; perché altri lo amino, lo adorino, lo abbraccino, lo seguano … In tal senso mi ha sempre aiutato a capire la mia vita e il mio ministero di presbitero e adesso anche di vescovo la figura di Giovanni il Battista, contemplato come l’amico dello sposo. Nella sua vita e nel suo ministero un prete non desidera altro: che lo Sposo e la sposa si incontrino: questa è la sua gioia. Una gioia tutta evangelica! Ecco perché il prete non cerca assicurazioni terrene che lo conducono a confidare nell’uomo e in logiche umane, troppo umane… “nel ministero – il prete – per sé non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno, né è preoccupato – sottolinea ancora papa Francesco – di legare a sé le persone che gli sono affidate. Il suo stile di vita semplice ed essenziale, sempre disponibile, lo presenta credibile agli occhi della gente e lo avvicina agli umili, in una carità pastorale che fa liberi e solidali”. La sua preoccupazione semmai è farsi strumento perché aderiscano e si leghino ad un Altro, che aderiscano e si leghino a Cristo che rende liberi e solidali. Il suo segreto, è quel fuoco che attrae, che segna ed accompagna tutta intera un’esistenza, che colma e fa bella la vita: “nell’incontro con Gesù hai sperimentato la pienezza della vita e desideri con tutto te stesso che altri si riconoscano in Lui e possano custodire la sua amicizia, nutrirsi della sua parola e celebrarLo nella comunità”. Il pastore appartiene al popolo santo di Dio dal quale si lascia incessantemente convertire e confermare da una fede semplice. Un prete è un pastore che opera continuamente con il popolo e vive nel cuore del popolo: “Questa appartenenza è il sale della vita del presbitero; fa sì che il tratto distintivo sia la comunione, vissuta con i laici in rapporti che sanno valorizzare la partecipazione di ciascuno. In questo tempo povero di amicizia sociale, il nostro compito è quello di costruire comunità”. Il prete è un uomo di relazione, egli è capace di intessere relazioni serene ed equilibrate con tutti; è un uomo di pace e di riconciliazione. Vive della tenerezza di Dio e si fa costantemente strumento di tenerezza: perciò getta, con limpida fiducia, senza stancarsi, ponti di amicizia, di comunione, di solidarietà…; questo mai da solo, ma insieme, con gli altri preti. Sappiamo che non siamo preti da soli, ma con gli altri preti. Il presbiterio costituisce sempre l’orizzonte germinale e vitale del nostro ministero. Siamo chiamati ad essere presbiteri nel e con il presbiterio, perciò, come ci dice papa Francesco, “è vitale ritrovarsi nel cenacolo del presbiterio. Questa esperienza – quando non è vissuta in maniera occasionale, né in forza di una collaborazione strumentale – libera dai narcisismi e dalle gelosie clericali; fa crescere la stima, il sostegno e la benevolenza reciproca; favorisce una comunione non solo sacramentale o giuridica, ma fraterna e concreta. Nel camminare insieme di presbiteri, diversi per età e sensibilità, si spande un profumo di profezia che stupisce ed affascina. La comunione è davvero uno dei nomi della Misericordia”.
c) … appartiene al Regno di Dio
In fin dei conti il prete non si appartiene, perché appartiene ad un Altro, appartiene ad altri, da cui si lascia continuamente generare e rigenerare. Afferrato da Cristo si lascia guidare dal suo stile di vita, lascia che Cristo viva in lui. Cosicché la sua esistenza non può essere pensata nell’ottica della conservazione, della preoccupazione per sé, come coloro che nella vita “calcolano, soppesano, non rischiano nulla per paura di perderci…Sono i più infelici! Il nostro presbitero, invece, con i suoi limiti, è uno che si gioca fino in fondo: nelle condizioni concrete in cui la vita e il ministero l’hanno posto, si offre con gratuità, con umiltà e gioia. Anche quando nessuno sembra accorgersene. Anche quando intuisce che, umanamente, forse nessuno lo ringrazierà a sufficienza del suo donarsi senza misura”. Perdersi per ritrovarsi ogni giorno, consegnarsi fino alla fine di buon animo, non per forza ma volentieri senza cercare interessi umani. La vita e il ministero del prete vengono contrassegnati da gesti e atteggiamenti di grande magnanimità. Un prete dal cuore grande vive questa consegna quotidiana, feriale, con generosità, senza trattenere niente per sé. Il suo è un donarsi fino in fondo, è consumarsi in quel fuoco che brucia e arde sempre senza mai consumarsi. Una vita e un ministero che non si lasciano imprigionare mai da logiche di calcolo, di controllo e di potere sprigionano energie sempre nuove, creatività e bellezza inaudite. Il prete “è l’uomo della Pasqua, dallo sguardo rivolto al Regno, verso cui sente che la storia umana cammina, nonostante i ritardi, le oscurità e le contraddizioni”. Lo sguardo del prete non si ferma all’immediato, all’effimero, a quello che può controllare o dominare, ma va oltre. Ha uno sguardo lungo… Non ha paura di lasciarsi inquietare, non ha paura di lasciarsi mettere in discussione, perché capisce se stesso sempre in cammino, verso il di più, verso l’eccedenza, verso il Regno. “Il Regno – la visione che dell’uomo ha Gesù – è la sua gioia, l’orizzonte che gli permette di relativizzare il resto, di stemperare preoccupazioni e ansietà, di restare libero dalle illusioni e dal pessimismo; di custodire nel cuore la pace e di diffonderla con i suoi gesti, le sue parole, i suoi atteggiamenti”. Il prete si lascia condurre dallo sguardo di Gesù, per cui guarda come Lui guarda tutto, con la sua stessa compassione e la sua stessa tenerezza guarda gli altri, il mondo, la storia… Accostiamoci sempre più a questo fuoco, che è una visione, che è una passione, che è uno stile di vita; Dio è amore, è compassione; è misericordia; la sua carità sia la nostra! Sì è proprio vero: è un tesoro ma in vasi di creta! È un tesoro da custodire ma per consegnarlo sempre di più, dentro un dinamismo che dilata il cuore. Sentiamo – sento – sempre più crescere la sproporzione, la distanza, ma sentiamo pure forte una presenza che ci avvolge, ci abbraccia e ci invia; dinanzi a questo fuoco ci presentiamo senza calzari ai piedi, poveri, umili, penitenti. Scalzi dinanzi a Dio per presentarci scalzi dinanzi agli uomini, poveri di mezzi, ma ricchi della sola ricchezza che non si corrompe e non corrompe, quella sola che conta e che con avrà mai fine. Nutriamoci di questo fuoco che arde e non si consuma per un servizio sempre più disinteressato, premuroso, generoso e gioioso del popolo fedele, dell’uomo del nostro tempo, della nostra terra di Calabria, della nostra Lamezia, di ogni uomo e di ogni donna, nessuno escluso, che il Signore ci pone accanto e ci permette di incontrare nel nostro cammino.
+ don Giuseppe Schillaci
Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù