Quello della Pacchiana è il tipico abito femminile calabrese. Un qualcosa di molto raro da poter vedere ancora ai nostri giorni, quasi una bizzarria rispetto al canonico dress-code della contemporaneità.
Questa sua alterità rispetto alla norma, fa sì che l’abito della pacchiana sia stato quasi dimenticato e sia divenuto un mero reperto museale, che si lascia ammirare quasi fosse una cosa a noi totalmente estranea.
La pacchiana era invece la normalità per tutte le ragazzine che alle età di 15-16 anni iniziavano a indossare l’”abito”, il che simboleggiava il passaggio dall’adolescenza all’età da marito.
Fra i vari indumenti che costituiscono le differenti parti dell’abito da pacchiana, una valenza particolare, atta a simboleggiare lo stato civile della donna, rivestiva il cosiddetto “panno”: questo, infatti, mutava colore in base allo stato della donna: verde, la giovane da marito; rosso, la donna sposata; viola, la donna più matura ancora nubile; nero, per le donne vedove e, pare, bianco, per le vedove di guerra.
Altra tipica caratteristica è la coda, un’imponente e raffinata gonna a pieghe blu o verde, nera in caso di lutto. La coda, di ragguardevole lunghezza, veniva, annodata secondo un preciso rituale e in modo tale da formare, una sorta di riccio che stava in posizione eretta alla base della schiena.
Nelle campagne di Falerna, in occasione del cerimoniale della mietitura del grano, abbiamo avuto modo di incontrare zia Lisetta, un’anziana donna che indossa la pacchiana e che non avverte nessun contrasto fra i suoi abiti e la moda contemporanea; anzi, questa simpatica e anziana donna risulta stranita dalla domanda che le viene posta da moltissime persone: “ma lei veste sempre così?”.
La risposta è immediata, spontanea e genuina nella sua immediatezza: “e come dovrei vestirmi?!”.
Innovazione e tradizione sono due facce di una stessa medaglia. Non può esserci passo in avanti senza la consapevolezza di quanto già si è camminato.
Ed ecco che accanto a zia Lisetta appare Serena, giovane maestra di sartoria lametina, attenta alle tradizioni e scrupolosa nelle sue ricerche territoriali. Anche lei indossa l’abito tipico, con alcuni indumenti prestatele proprio da zia Lisetta. L’intenzione di Serena, così come molti giovani che si impegnano quotidianamente in un lavoro di ricerca consapevole e avveduta, scevra di improvvisazioni e scopi autoreferenziali, è quella di mandare avanti la Calabria, di proiettarla in un futuro che poggi sulle solide basi della nostra storia culturale e folklorica.
Il passato non costituisce macerie da radere al suolo, per costruire ex-novo un qualcosa che non appartiene alle nostre radici ma che ci viene propinato da una cultura di massa globalizzante a neutralizzante, priva di rispetto per le differenze; bisogna bensì partire dal nostro passato, da una storia che consente di poterci incamminare avendo sottomano sempre un solido baluardo che impedisca di smarrirsi.
Chissà che partendo dal tipico abito calabrese non si possa – grazie alle competenze che i giovani calabresi, con impegno e dedizione, hanno maturato – evolvere in qualcosa di diverso e più adatto agli stili di vita che abbiamo assunto, continuando a vivere non più come reperto museale ma come attualità viva e concreta. Questa è la nostra speranza.
Giovanni Mazzei